08/11/16

La realtà cruda del lavoro e non lavoro delle donne richiede una lotta dura delle donne - 25 novembre manifestiamo a Roma contro i palazzi del potere che incatenano le nostre vite!

La realtà generale, che ogni tanto viene fuori sfuggendo alle statistiche manipolate del governo Renzi, ci dice che crollano di quasi il 30% le assunzioni a tempo indeterminato nel secondo trimestre del 2016 e contemporaneamente aumentano i licenziamenti (+7,4% sul secondo trimestre 2016), 15.264 in più rispetto al secondo trimestre 2015.
Le donne in questo subiscono un doppio attacco: già al 90% sono assunte, bene che vada, con contratti ultraprecari, a bassi salari, senza diritti, già subiscono normalmente discriminazioni, disparità di trattamento salariale e di condizioni di lavoro con gli uomini e difficoltà per e sul lavoro, ora nella condizione di peggioramento di tutti i lavoratori e di chi cerca lavoro, le donne sono le prime ad essere licenziate o a non trovare lavoro decente.
I dati da noi riportati nell'opuscolo “S/catenate” sono confermati in peggio.
Lì scrivevamo che nel sud appena il 13% delle donne è occupata nelle industrie, mentre sul piano nazionale la presenza si attesta intorno al 15%. Oggi dobbiamo fare i conti con i licenziamenti, cassa integrazione nella maggiorparte delle fabbriche. Al Sud 2 donne su tre non lavora, o è occupata in lavori a nero, a servizio a domicilio, e nelle tantissime forme di super sfruttamento e sottosalario. La disoccupazione delle donne rasenta al sud il 50%.
Le differenze di genere nelle possibilità di lavoro e di guadagno rafforzano la divisione del lavoro in famiglia. Ma molte donne rinunciano a cercare lavoro, non per il peso dei servizi di cura ma perchè non trovano lavoro.

Il calo maggiore dell’occupazione si ha nelle attività lavorative part time, a dimostrazione che questo rapporto, sbandierato come favorevole all’occupazione femminile e a conciliare i tempi di lavoro con i tempi di vita (vale a dire, più brutalmente, i tempi del doppio lavoro, nelle aziende e in casa), non significa salvaguardia o aumento dell’occupazione delle donne.

La parola chiave per le lavoratrici è “precariato”. I contratti atipici, nei quali si concentrano donne e giovani, rappresentano per i padroni una valvola di flessibilità in caso di necessità di ridimensionamento dell’attività produttiva. Tra le operaie con meno di 35 anni, una su cinque (21%) ha un contratto di lavoro temporaneo, precario. La flessibilità, lungi da essere un'opportunità per i tempi delle donne, liberi da rigidi vincoli, “creativi”, a misura della conciliazione tempo di lavoro/tempo di vita, è, insieme al peggioramento delle condizioni di lavoro, una catena, perché tutta la vita è legata alle esigenze aziendali. L'incertezza del mantenimento del salario e del posto di lavoro, spinge non a fare meno lavoro, ma a fare più lavoro, più lavori e a passare spesso il tempo “libero” a cercare altri lavori. La precarietà si somma alla fatica e produce uno stress psicofisico.

L'altro elemento costante per le donne è la disparità salariale. La condizione femminile in Italia è la peggiore d’Europa per salari, iter di carriera. Anche nei rapporti di lavoro stabili lavorano di più ma prendono meno. Se in media un operaio guadagna 1.170 euro, una donna operaia su tre guadagna meno di mille euro.
I licenziamenti delle donne raddoppiano quelli degli uomini perché la maggior parte è occupata in aziende piccole, nei settori industriali più a rischio di obsolescenza e con condizioni lavorative peggiori, così come in attività con contratti a termine.
Tante lavoratrici al rientro dalla maternità diventano “figlie di nessuno”. La perdita di posti si registra nella stragrande maggioranza per i giovani e per le donne giovani, sotto i 40 anni.
Con i contratti atipici chi va in maternità difficilmente ritorna al posto di lavoro lasciato.

La famiglia è motivo di abbandono per oltre il 40% delle donne. Solo il 3% dei padri lascia il lavoro per restare a casa.
La famiglia diventa una catena per le donne, una cappa che ne schiaccia, deprime le energie fisiche e mentali, in una situazione tra l’altro in cui percentualmente le donne giovani superano i maschi nella continuazione degli studi, nell’interesse per la cultura, leggono di più, vanno più a cinema, teatro, ecc.

Un altro elemento significativo è il peso sociale, ma spesso anche individuale, dell’ideologia, del valore dato alla famiglia dalle donne.
Ma su questo, al di là dei luoghi comuni, le donne al sud dimostrano una maggiore volontà di indipendenza, una maggiore spregiudicatezza e una minore ideologizzazione della famiglia.

La mancanza di lavoro costringe le donne a restare nella propria famiglia di origine (tra i 18 e i 29 anni il 71,4% vive con i genitori). Ma le giovani donne cercano più dei maschi di andarsene di casa, a dimostrazione di un maggior bisogno delle donne di indipendenza e di uscire da un’oppressione familiare.

I tagli alle scuole e agli asili, costituiscono un doppio attacco alle donne: da un lato queste politiche peggiorano drasticamente i servizi pubblici, in particolare i nidi, con aumenti significativi dei costi, rendendo ancora più difficile l’utilizzo di essi con conseguente ricaduta sulla vita delle donne e le possibilità di lavoro. Dall’altro lato peggiorano le condizioni di lavoro delle lavoratrici di questi servizi che si vedono scaricare su di loro gli effetti della “razionalizzazione” con licenziamenti, aumenti dei carichi di lavoro per chi resta, o passaggio alla gestione privata dei servizi, dove hanno condizioni contrattuali e di lavoro peggiori.

Tra casa e lavoro fuori, le donne si sobbarcano un lavoro di almeno 60 ore alla settimana. Le donne svolgono tuttora il 70% del lavoro familiare. La maggior parte del tempo dei padri, circa 10 ore su 24, è dedicato al lavoro retribuito, mentre il tempo delle madri è diviso tra lavoro familiare 8 ore e 35 minuti, e lavoro retribuito 7 ore e 9 minuti.
Si riempiono la bocca di “parità”, di eliminazione delle “discriminazioni”, ma si guardano bene di eliminare la fonte di tutte le discriminazioni, il lavoro domestico.

Un altro pesantissimo attacco alla condizione delle donne è venuto con la riforma delle pensioni. Una provocazione! Mentre tante non trovano lavoro, o fanno solo lavori a termine, precari, o vengono cacciate dal lavoro, il governo ha allungato l’età pensionabile. Dietro le ipocrite dichiarazioni sulla “parità”, c'è solo la realtà vera di un taglio rilevante alla spesa pensionistica, un vero e proprio furto sulle spalle delle donne.
Ma allungamento dell’età pensionabile per le donne significa soprattutto fatica, stress, attacco alla salute fisica e psichica. Stare più anni al lavoro significa per tantissime lavoratrici: stare più anni in piedi ad una catena di montaggio, stare più anni piegate sulle macchine da cucire nelle fabbriche tessili, o in agricoltura, soffrire via via che passano gli anni di dolori alle gambe, alle braccia, alle spalle; significa per più anni correre dopo il lavoro a casa e lì ricominciare senza potersi riposare, e, non ultimo, non poter fare l'amore per settimane perchè arrivi la sera troppo stanca.

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