13/03/16

Il pane e le rose. Femminismo e lotta di classe

Nelle prossime settimane arriverà nelle librerie italiane e negli infoshop di Movimento un importante saggio di Andrea Iris D’Atri (*), tradotto dallo spagnolo e curato da Serena Ganzarolli. Il titolo non lascia dubbi sul contenuto del libro: Il pane e le rose. Femminismo e lotta di classe (il testo in corsivo è della casa editrice).

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Come scrive Andrea Iris D’Atri in una nota all’edizione italiana, Il pane e le rose intende muoversi “in senso opposto rispetto a un certo femminismo”, che: “Si liquefa in insipidi programmi assistenziali di organizzazioni non governative o che si accontenta di disquisire di «corpi desideranti» e di piccole e limitate emancipazioni soggettive in un mare di oppressioni. Diciamo in senso opposto perché quel femminismo che in passato aveva denunciato l’armonioso matrimonio fra capitalismo e patriarcato ha poi smesso di puntare il dito contro lo sfruttamento che subiscono milioni di esseri umani e su cui continuano a fondarsi le società attuali, in cui le donne sono coloro che pagano il prezzo più alto. Quel femminismo che aveva saputo raccogliere le rivendicazioni delle lavoratrici – rivendicazioni che finivano sempre in secondo piano rispetto a quelle dei loro fratelli di classe – oggi si preoccupa delle difficoltà e degli impedimenti che riguardano le imprenditrici e le alte dirigenti nell’essere considerate alla pari degli sfruttatori maschi. Quel femminismo che aveva saputo rintracciare l’irreggimentazione della sessualità nel modello della famiglia patriarcale tradizionale, oggi si limita a rivendicare il minimo e elementare diritto in cui tutte le forme di famiglia esistenti ottengano il riconoscimento da parte dello Stato che legittima e riproduce le discriminazioni. Quel femminismo che aveva reinventato il linguaggio per gridare ad alta voce ciò che per secoli era stato messo a tacere, oggi si accontenta della minuscola battaglia per un linguaggio inclusivo. E nel frattempo ovunque cresce l’antifemminismo sulla base del sentimento diffuso di nuove generazioni di donne che credono che non ci sia bisogno di nessuna lotta antipatriarcale perché tutti i diritti sono già stati conquistati. L’integrazione al sistema è diventata l’unica meta, ma la verità è che si tratta di una manciata di diritti che possono essere pienamente esercitati solo da alcune donne, solo in alcuni paesi e solo per un periodo di tempo limitato. I diritti democratici conquistati negli ultimi decenni dalle donne a livello mondiale non sono né eterni né irremovibili. La crisi economica mondiale, le crisi sociali e politiche spazzano via questi diritti come tanti altri e se non li cancellano, perlomeno li limitano. (...) Quando sappiamo che un gruppo di persone in grado di riunirsi in un lussuoso e non necessariamente molto ampio salone di Roma, New York o Tokyo possiede quel che possiede la metà dell’umanità, qualsiasi tentativo di riformare il capitalismo affinché noi donne continuiamo a ottenere diritti inclusivi risulta utopico per non dire spudoratamente provocatorio”.

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A seguire, riportiamo un paragrafo del libro in cui l'autrice tratta della giornata dell'8 marzo, una giornata in grado, fin dai primordi della sua istituzione, di coniugare classe e genere in una prospettiva di cambiamento radicale dell’esistente:

Appartenenza di genere e antagonismo di classe nella Giornata internazionale della donna

Ancora oggi l’8 marzo viene celebrata la Giornata internazionale della donna, sommersa da réclame di prodotti e eventi di tutti i tipi; l’origine di questa commemorazione continua a essere ignorata. Essa è da ricercarsi in un’azione rivendicativa organizzata da alcune operaie del XIX secolo: l’8 marzo 1857 le lavoratrici di una fabbrica tessile di New York si dichiararono in sciopero contro le estenuanti giornate lavorative di dodici ore e i salari da fame, motivo per cui furono costrette a fronteggiare gli attacchi delle forze dell’ordine. Mezzo secolo più tardi, nel mese di marzo del 1909, centoquaranta giovani donne morirono bruciate vive nella fabbrica tessile dove lavoravano in condizioni disumane. Sempre quello stesso anno altre trentamila operaie tessili newyorkesi si dichiararono in sciopero subendo una dura repressione da parte della polizia, ma a dispetto di questo, le lavoratrici ebbero l’appoggio degli studenti, delle suffragette, dei socialisti e di altri settori della società. Pochi anni più tardi all’inizio del 1912, nella città di Lawrence (Massachusetts) scoppiò quello che è passato alla storia come il famoso «sciopero del pane e delle rose» animato, tra le altre, anche da operaie tessili che sintetizzavano in queste parole le loro rivendicazioni di aumento salariale e condizioni di vita migliori. Per consentire la partecipazione delle lavoratrici allo sciopero, il comitato di sciopero allestì asili e mense comuni per i figli delle operaie, mentre il sindacato Industrial workers of the world promosse incontri con i bambini e le bambine per discutere dei motivi per cui i loro genitori stavano scioperando. Dopo vari giorni di scontri i bambini vennero trasferiti presso altre città, accolti da famiglie solidali con la lotta operaia. Dal primo treno scesero in centoventi, tra bambini e bambine, ma nel momento in cui si tentò di ripetere la stessa operazione con un secondo treno, la polizia si scatenò in una violenta repressione contro i bambini e contro le donne che li accompagnavano; a causa di questo comportamento ignobile, il clamore della lotta raggiunse i quotidiani di tutto il paese e il parlamento, facendo aumentare così la solidarietà nei confronti delle scioperanti. Già due anni prima di questa vicenda durante la II conferenza internazionale delle donne socialiste a Copenaghen, la tedesca Clara Zetkin aveva proposto di fissare nel mese di marzo la Giornata internazionale della donna in omaggio a tutte le lavoratrici che avevano promosso e portato avanti le prime azioni di lotta contro lo sfruttamento capitalista. Nell’agosto del 1910 cento militanti socialiste di diversi paesi europei dibattevano su come allargare il diritto di voto per le donne, su come le lavoratrici madri potessero godere della protezione sociale e su quali fossero i meccanismi da adottare per stabilire delle relazioni tra le socialiste di tutto il mondo. Nella conferenza si approvò una mozione per la giornata lavorativa di otto ore, le sedici settimane di congedo di maternità e altri provvedimenti. Le delegate tedesche portarono avanti la mozione, che venne approvata all’unanimità e che per la sua importanza passò alla storia. La risoluzione che presentarono Clara Zetkin e Kate Duncker diceva che «secondo le organizzazioni politiche e sindacali proletarie, le socialiste di tutte le nazionalità organizzeranno nei loro rispettivi paesi un giorno speciale dedicato alle donne il cui obiettivo principale sarà promuovere il loro diritto al voto. Sarà necessario dibattere questa proposta in relazione alla questione femminile partendo dalla prospettiva socialista. Questa commemorazione dovrà avere carattere internazionale e bisognerà prepararla con molto impegno». Negli anni seguenti, la giornata della donna venne celebrata in differenti paesi, ma in date diverse. Solo nel 1914 le socialiste tedesche, russe e svedesi fecero coincidere la celebrazione nella data dell’8 marzo e fu questa la data che alla fine rimase alla storia come la Giornata internazionale della donna perché mentre la ricorrenza veniva celebrata in Russia, (a febbraio, secondo il calendario ortodosso) le operaie tessili di Pietrogrado scesero in strada reclamando «pane, pace e libertà» segnando così l’inizio della più grande rivoluzione del XX secolo che sarebbe sfociata nella presa del potere da parte della classe operaia nell’ottobre dello stesso anno. La Giornata internazionale della donna coniuga quindi l’appartenenza di classe e quella di genere che, più di un secolo dopo, continua a essere dibattuta tanto fra le marxiste quanto tra le femministe.

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