12/06/13

A.C.A.B. violenze e stupri punitivi in Turchia

Scritto da: Andrea Spinelli Barrile - martedì 11 giugno 2013

Le denunce dei manifestanti turchi: la polizia usa le violenze sessuali come punizione per chi viene arrestato.
La notizia ha cominciato a trapelare, come un alito di vento in una tempesta, pochi giorni fa ma le difficoltà a verificarne l’attendibilità, senza scadere così in incidenti diplomatici o falsità giornalistiche, avevano imposto una ferrea cautela: molti giovani donne turche, che in questi giorni manifestano contro l’autoritarismo di Erdogan, la libertà di pensiero e la laicità della Turchia, sarebbero state tratte in arresto dalla polizia e violentate, per “punirle sessualmente”.
Una notizia del genere va trattata con i guanti: la violenza sessuale punitiva è una triste prassi delle atrocità che l’uomo è capace di commettere, come in Argentina, in Cile, come nell’Afghanistan talebano, ma fa male, malissimo, pensare che la polizia di uno stato che si definisce democratico (in sala d’attesa per entrare in Europa) possa commettere atrocità del genere. L’accusa, anzi la testimonianza, viene da Erkan Yolalan, un giovane studente turco che dalle colonne di Hurriyet Daily News racconta l’incubo che in queste ore tante donne turche starebbero vivendo come conseguenza della fortissima repressione delle autorità di Ankara.

Mi trovavo alle nove di sera a Besiktas. Non facevo niente, non bestemmiavo, non buttavo pietre. Appena mi hanno visto mi hanno afferrato. E sono scivolato nell’inferno. Ogni poliziotto presente ha iniziato a prendermi a calci e pugni. Per 150 metri, fino al bus della polizia, tutti mi hanno picchiato, maledetto, insultato. Non finivano mai.
Scene come questa ne abbiamo, purtroppo, viste anche noi in tempi poco lontani: il G8 di Genova del 2001, ad esempio. Gli amici e i familiari che osservano in TV, impotenti, l’arresto di Erkan Yolalan; la violenza è cieca, racconta Erkan, incalcolabile il numero di agenti che ha alzato la mano o il manganello, che gli ha menato un calcio. Insulti, maledizioni. Trascinato dietro i tank e percosso a sangue, lontano dall’occhio delle telecamere di sorveglianza. Poi caricato, di forza, tra gli insulti e le botte, su un autobus blindato di detenzione (İETT):

Le luci erano spente. Ho sentito la voce di una ragazza che supplicava: “Non ho fatto nulla, signore”, ma loro la picchiavano e lei pareva soffocare. L’unica cosa che potevo fare io era coprirmi la testa, quelli continuavano a picchiarmi.
Poi l’orrore vero: un poliziotto in borghese il cui nome, fornito da Erkan, dovrebbe essere İsmail ha urlato alla ragazza:

Ti sbatto per terra e ti violento, ora! Ora che è buio e le luci sono spente farò sesso!
Ottenendo come unica straziante risposta un miagolante “Si, signore”, rotto dal pianto. Gli arrestati, erano in tre sul bus, erano tutti costretti ad urlare frasi inneggianti alla polizia, al governo turco ed alla Turchia: un giovane con il naso rotto ha spiegato ad Erkan che è stato ridotto così da tre agenti: in due lo tenevano e uno lo pestava. Poi è il turno di Mustafa da Bahçeşehir, un giovane universitario: troppo debole persino per stare in piedi, Mustafa sarebbe stato aggredito da venti agenti che lo avrebbero colpito con schiaffi, pugni e con un casco. Poi si sarebbero accaniti sulla testa, sbattendolo sui finestrini dei tank. Caricato Mustafa sul pullman di detenzione, sarebbe stato lasciato seduto a sanguinare, ammanettato, tra le risa. Non ricordava nemmeno chi fosse.
La storia di Erkan è una doccia gelata, una di quelle testimonianze che scatenano dentro un misto di rabbia e stupore, rigurgitano immagini rosse come il sangue, nere come gli incubi che questi ragazzi dovranno affrontare per molto tempo ancora: al loro arrivo al commissariato di Polizia c’era un esercito di avvocati pronti a servirli e una cortesia stucchevole da parte delle autorità.
Questa storia è arrivata nel Parlamento turco grazie al Partito Repubblicano del Popolo (CHP), che in Aula ha chiesto di trovare i responsabili: Erkan però oggi ha paura, perchè la sua è una voce nel deserto ed il rischio è che, nei processi che verranno (e che gli verranno intentati per diffamazione), si trasformi da vittima a carceriere egli stesso. Non sarebbe la prima volta. Purtroppo nemmeno l’ultima.

Nessun commento: